S. FELICE DA CANTALICE


Il 22 maggio 1712 papa Clemente XI innalzava agli onori degli altari iscrivendolo nell’albo dei Santi fra Felice da Cantalice, primo Santo dell’Ordine dei Frati Cappuccini.

Felice si fece cappuccino verso la fine del 1543, bussando alla porta del Convento di Cittaducale. Nato a Cantalice, piccolo centro della valle reatina, nel 1515, Felice era in quegli anni garzone alle dipendenze della ricca famiglia dei Picchi di Cittaducale. L’anno di noviziato lo trascorse presso il convento di Anticoli di Campagna, come allora si chiamava Fiuggi, nello stesso luogo dove alcuni anni prima era improvvisamente morto una delle grandi personalità dell’Ordine, fra Francesco Tittelmans da Hasselt (Belgio). Alunno e docente della prestigiosa università di Lovanio, il Tittelmans era entrato tra i frati dell’Osservanza negli anni 1521/1522, ma essendo venuto a conoscenza dell’esistenza dei frati cappuccini, si mise in viaggio per l’Italia e a Roma nel 1535/1536, fu accolto nel nostro Ordine. A poco meno di un anno dal suo ingresso nell’Ordine fu eletto Vicario provinciale della Provincia di Roma, ma il 12 settembre 1537 morì improvvisamente mentre era in visita ai frati nel convento di Anticoli di Campagna (Fiuggi).

Per la Provincia romana si spegneva una grande speranza, ma pochi anni dopo, nello stesso luogo, nasceva una nuova luce, non più un uomo dotto, ma un illetterato con la stoffa della santità. Felice era uomo semplice, si vantava di conoscere solo cinque lettere, quelle delle piaghe di nostro Signore. Francesco Tittelmans e Felice da Cantalice sono due cappuccini, molto differenti fra di loro per provenienza e formazione, vicinissimi però per zelo e amore all’Ordine; essi testimoniano come fin da principio la nostra fraternità ha accolto sia lo studioso che l’umile figlio di contadini, il dotto e l’analfabeta, purché animati dal desiderio e dalla volontà di seguire Cristo.

Quando fra Felice chiese di poter vestire il nostro abito si era da poco consumato un fatto che rischiò di compromettere seriamente gli inizi della nuova “riforma” cappuccina. Era infatti trascorso poco più di un anno da quando fra Bernardino Tomassini da Siena, detto l’Ochino, Vicario generale dell’Ordine, era passato alla Riforma protestante e Papa Paolo III era intenzionato a sopprimere la neonata famiglia francescana. Con la sua santità, fra Felice contribuì al superamento di quella crisi dell’Ordine. Egli, infatti, vivendo con autenticità il suo essere “cappuccino”, dimostrò concretamente quale fosse il proposito che animava la nostra «Riforma»: ritornare all’originaria ispirazione, cioè alla vita e Regola del nostro Padre san Francesco, essere suoi figli e discepoli, e come lui vivere di Cristo nell’obbedienza alla Chiesa.

Giorno dopo giorno, per quarant’anni (dal 1547 al 1587), da umile questuante, percorse le vie di Roma, bussando ad ogni porta per chiedere l’elemosina, ma allo stesso tempo lasciando la parola bella del Vangelo detta come lui sapeva dire: cantando con i bambini, ascoltando chi gli confidava le proprie pene, accogliendo quanto gli veniva offerto. Raccontano le cronache che il suo sguardo era sempre rivolto a terra, ma questo non gli impediva di vedere e di cogliere il bisogno di chi gli stava di fronte: alleviare il dolore, confortare l’afflitto, curare il male fisico o morale. Chi incontrava il questuante cappuccino fra Felice non partiva mai a mani vuote. e le mani di fra Felice erano quelle che avevano ricevuto dalla Madre di Dio il Bambino Gesù, da lui teneramente abbracciato: così ce lo ha consegnato l’iconografia!

Lo stare quotidianamente in mezzo alla gente di ogni condizione sociale lo portava ad incontrare le tante miserie spirituali e materiali del suo tempo. Tutto raccoglieva nella sua bisaccia e, rientrato in convento, la svuotava nelle mani del suo guardiano: c’era il pane, c’erano le fave, c’era quanto gli era stato dato, ma c’erano anche tutte le disgrazie che aveva visto, i bambini che aveva fatto cantare, il pianto di tanti, il buon cuore di chi non gli aveva negato l’elemosina. Tutto e tutti fra Felice, contento, portava in chiesa e per loro offriva al Signore la sua preghiera e il resto della sua giornata cioè, di solito, quasi tutta la notte. A questo aggiungeva le penitenze di ogni genere per impetrare l’intervento di Dio per tutti, poveri o ricchi, tutti bisognosi della misericordia di Dio.

Lo stare in mezzo alla gente non lo distraeva dalla sua unione con Dio, anzi era il suo modo di contemplare il mistero dell’amore di Dio per gli uomini. Potremmo dire che fra Felice era un contemplativo sulle strade. In mezzo alla gente stava con allegria, ilare, in modo semplice, caratteristiche che lo rendevano vicino a tutti. Un vero frate del popolo! Lo conoscevano come frate “Deo gratias”. Era, infatti, questo il suo motto, il suo modo di ringraziare per l’elemosina ricevuta. Se poi qualcuno si burlava di lui e lo giudicava un pazzo, egli ne godeva interiormente e riusciva a conquistarsi l’amicizia anche di questi, perché li accoglieva con la pazienza di Dio che sa aspettare il peccatore e mai smette di amarlo.

Era talmente contento della sua condizione di fratello questuante che soleva dire: “Io sto bene, meglio che lo papa. Il papa ha delle fastidi et travagli, ma io mi godo questo mondo: et non cambiaria questa sacoccia col papato e col re Filippo insieme!” Il suo modo diretto e schietto lo portava a scambiare delle battute col Papa Sisto V o con San Filippo Neri, come anche con il futuro cardinale Cesare Baronio o con San Carlo Borromeo. Aveva battute sagaci con gli alunni del Collegio Germanico, ma anche con qualche dama della nobiltà romana, senza mai neppure un pizzico di malizia! I santi sanno ridere e far sorridere, nascondendo, come ha fatto fra Felice, l’ardore di consegnarsi a Cristo, senza che altri se ne accorgano. Questa è l’umiltà di chi non sa altra parola che quella di fare la volontà di Dio.

La sua spiritualità, apparentemente tanto semplice, era incentrata solidamente sulla persona di Cristo, di cui ammirava in particolar modo il presepe e la croce. Teneva in grande venerazione la Madonna e San Francesco, praticando una preghiera dagli accenti fortemente affettivi e, al momento di ricevere la comunione, si commuoveva fino alle lacrime. Tutto ciò fece di lui un vero figlio di San Francesco, un frate capace di andare verso tutti, ricchi e poveri, cardinali e mendicanti, dotti e illetterati e sempre con lo stesso atteggiamento: accoglienza di chi incontrava, rispetto per l’altro, amore per la persona che gli stava davanti.

I frati che gli vissero accanto e poterono beneficiare dal suo quotidiano peregrinare per le vie di Roma, sperimentarono il suo zelo per la preghiera chiamati da lui sia nel bel mezzo della notte per la preghiera di mattutino sia all’alba del nuovo giorno per quella delle lodi. Furono però ugualmente sorpresi quando alla sua morte videro l’interminabile processione di gente che accorreva a venerare la sua salma. C’erano tutti, i bambini e i cardinali, la gente semplice e il nobile, il medicante e Papa Sisto V. Ora era Roma che andava dal santo frate questuante invertendo quel cammino che per tanti anni fra Felice aveva fatto andando in mezzo alla gente.

In quel giorno che vide fra Felice nascere al cielo anche se la gente era tanta intorno alle sue spoglie mortali, la voce era una sola e lo proclamava “santo”. I miracoli che si diceva avevano segnato il tempo della sua vita terrena ora venivano raccontati: erano molti. Anche tra i suoi confratelli c’era chi rimaneva stupito. Fra Felice dava così la sua ultima lezione, quella che autenticava la sua intera esistenza: tutto aveva vissuto in umiltà, nascondendo quanto il Signore concedeva alla sua preghiera, alle sue mortificazioni, al suo consegnarsi senza trattenere nulla per se stesso, ma tutto chiedendo e donando per il bene di chi durante la giornata aveva incontrato.

Roma, 18 maggio 2012 – Festa liturgica di San Felice da Cantalice

Fr. Mauro Jöhri – Ministro generale OFMCap










L’INFANZIA DI SAN FELICE DA CANTALICE IN VALLE SANTA REATINA TRA CANTALICE E CITTADUCALE

Diceva Fra Felice Porri: Io sono di quella mala gente di Cantalice.

Cantalice, Piccolo paese della provincia di Rieti così descritto da qualche mala lingua contemporanea a San Felice: Sono i cantaliciani di cuori alteri, di spiriti Bravi, d’animi feroci, pronti alla mano… fieri, vendicativi… Dall’aratro all’armi e da quelle a quello tornano. E qualcuno aggiunge: i cantaliciani di loro natura sono dediti alla bravura, sanguinari, vendicativi implacabili. So in particolare che in detta terra di Cantalice, non ci è famiglia che non sia stata inquisita di omicidio, eccetto che quella dalla quale è nato Fra Felice.

La Famiglia di Sante Porri e Santa dè Nobili era Composta di cinque figli: Biagio, Carlo, Felice, Pietro Marino e Potenza e abitava nella zona alta di Cantalice, chiamata Rocca di Sopra (luogo dove ora sorge la maestosa Chiesa di San Felice), nell’ambito della parrocchia di Sant’Andrea Apostolo. Era una famiglia dignitosa, che viveva del proprio lavoro nei campi. I Porri di Cantalice possedevano vari fondi rustici, dislocati in varie parti del territorio, animali domestici e buoi per l’aratura. La famiglia di Felice “aveva case dentro e fuori della terra” ed era considerata “nè una delle più ricche né una delle più povere del paese”.

Felice era il terzo figlio maschio è nato a Cantalice nel 1515, stesso anno in cui a Firenze nasceva San Filippo Neri ed è stato battezzato nella chiesa di Sant’Andrea Apostolo.

A cantalice nella zona chiamata Rocca di Sotto, c’era un Convento di Frati Agostiniani. Il piccolo Felice vedeva da casa sua, poco più in basso i tetti del convento e il campanile di Santa Maria del Popolo(Chiesa dove viene conservato il battistero della Chiesa di Sant’Andrea dove San Felice ha ricevuto il battesimo e il monumento a lui dedicato). Si sentiva attratto da quei frati. Da loro, se non proprio da un suo cugino frate , intese leggere la vita dei santi Padri del deserto. Ascoltava rapito che quegli, uomini solitario non mangiavano nè pane, né carne, ma solo fichi, datteri e erbe.

Quando intese che a volte passavano la giornata nutrendosi solo di tre fichi, siccome gli sembrò impossibile, chiese spiegazioni al cugino Agostiniano, il quale gli rispose che erano fichi molto grandi. Il ragazzo ingenuamente lo prese per vero. Ci pensava, e gli venne il desiderio di vivere una vita eremitica come la loro. Confidò quest’idea al frate agostiniano, che gli consiglio di imitarli entrando nel suo convento. Felice Rispose: “O io ci voglio far davvero o non mi ci voglio mettere“. Forse fu questo il primo germe della sua vocazione religiosa fra i Cappuccini. Crescerà con gli anni, e si realizzerà molti anni dopo, a cominciare dal 1543, quando si presento nel solitario convento dei Cappuccini di Cittaducale.

Felice da bambino, seguiva i più grandi nel lavoro dei campi e nella cura del bestiame, come allora si usava normalmente nei paesi a prevalente economia agricola. Naturalmente, non frequento nessuna scuola e, come tutti quelli della sua famiglia non si preoccupo mai di imparare a leggere e scrivere.

Don Giovanni Battista de santi, di Cantalice, ricordava di aver giocato con Felice e di aver fatto la lotta con lui e il sig. Livio de santi, nipote di Don Giovanni, anche lui di Cantalice, a 90 anni di età ricordava ancora che “Felice faceva l’arte del Bifolco o pastore di buoi ed essendo ancora bambino andava con gli altri compagni, pure pastori alla campagna a pascere i buoi. Durante la notte, mentre gli altri dormivano pian piano si allontanava e andava a pregare in ginocchio ai piedi di una quercia”. Si narra che durante una calda giornata estiva, nel luogo dove oggi sorge il Santuario di San Felice all’Acqua, i compagni di Felice dediti alla cura degli armenti, stanchi per il gran caldo e la mancanza di acqua si lamentavano e imprecavano contro Dio e il loro triste destino affinché potessero dissetarsi, Felice pregò e colpendo a terra con un bastone fece scaturire una sorgente d’acqua. Il santuario è meta ancora oggi di numerosi pellegrini soprattutto nel periodo della apertura estiva dal 14 agosto alla fine di ottobre di ogni anno.

Non ancora decenne, fu mandato nella vicina Cittaducale presso i Pichi, una famiglia di proprietari terrieri. I Pichi non erano estranei a Cantalice, dove avevano anche loro delle proprietà in località Forca di Capo d’Acqua o Colle di Sonaglia. Non è improbabile, quindi, che le due famiglie – i Porri e i Pichi – si conoscessero e i ragazzi andassero insieme a pascolare e giocare per i campi di Cantalice. Il piccolo Felice era partito per Cittaducale più che in cerca di un lavoro, a continuare quello che faceva già nel suo paese, accolto come un figlio in una famiglia che conosceva bene. Man mano che il bambino cresceva, gli vennero affidati compiti sempre più impegnativi, fino ad essere nominato bifolco e messo a lavorare la terra con i buoi. Ormai era un bel ragazzo, robusto, buono, che si faceva voler bene e ispirava fiducia. La signora Antonella Pichi, rimasta vedova del marito Rodolfo, viveva nel palazzo di famiglia con la figlia Maria e – più tardi – con Marco Tullio, figlio di Gian Francesco, fratello di suo marito. Felice dormiva in casa Pichi, in una cameretta sotto il tetto. L’arredo era essenziale. Oltre il letto, che possiamo solo immaginare come fosse, c’era poco d’altro. Così nel 1619 la descrive il proprietario, Fulvio Falconi, nipote della signora Antonella: “Quando era tempo di andare a dormire, Felice si ritirava nella cameretta che era in casa mia, e li pregava a lungo davanti ad un quadretto della Madonna con quattro altri santi. E’ un dipinto su tavola che conservo con molta devozione. Sopra il letto c’era anche un Crocifisso di piombo, che ora ha una mano rotta”. Marco Tullio, nato nel 1527, quando Felice aveva dodici anni ed almeno da due era in casa Pichi, seguiva con una certa ingenua curiosità e ammirazione il lavoro del giovane bifolco ed ebbe modo di osservare più di una volta che quel dipendente era presente contemporaneamente in chiesa a sentir Messa e sul campo ad arare. Ripetutamente gli chiese come mai, la risposta era sempre che lui non si era mai allontanato dal campo. Una risposta che lo lasciava perplesso perché ogni tanto lo sorprendeva in ginocchio, di solito sotto una quercia, assorto nella preghiera. Ed era cosa nota a tutti che quel giovane lavoratore dei Pichi, che andava a prendere l’acqua per tutti, ogni domenica era in chiesa a sentir Messa, confessarsi e comunicarsi. Una volta almeno, però, a Felice capitò di dover chiedere perdono ai suoi padroni. Aveva dato, senza il loro permesso, “una foglietta di vino moscatello” e un po’ di fieno per il cavallo, ad un suo paesano, che era andato a Cittaducale per la fiera. Pregò il padrone di sottrarre dal suo stipendio l’equivalente in denaro e di dare ai poveri il rimanente.

Improvvisamente la vita di Felice cambiò. Quel giorno era nel campo de “L’Immagine de’ Varvari” (nella zona di Valviano), non lontano da Cittaducale, oltre il fiume Velino. Eppure li aveva domati quei buoi che aveva attaccato all’aratro con il vomere appuntito. Lo aveva fatto tante volte per i Pichi e per altri. Ormai era considerato da tutto il contado il massimo esperto del settore. Quel giorno lo aveva chiamato il signor Bucciarello Pagano per domare due giovenchi. Felice – “tozzotto”, come disse il suo maestro di noviziato quando lo vide qualche tempo dopo il fatto che sto raccontando – prese in consegna i due giovenchi e riuscì ad aggiogarli all’aratro, al quale aveva tolto, per prudenza, il vomere. Per alcuni giorni li esercitò così. Poi aggiunse il vomere all’aratro e provò a costringerli ad arare. I giovenchi avevano ancora i piedi impastoiati con delle funi e Felice fu costretto ad andare davanti a loro per sbrogliarli. A quel punto successe l’imprevisto. I giovenchi si infuriarono e travolsero il giovane bifolco, che si vide in un baleno con terrore passargli sul petto il vomero lucente. Si alzò stralunato. I vestiti era tutti strappati e si trovò nudo. Sul suo petto robusto e villoso non c’era traccia di ferita o di sangue. Marco Tullio Pichi, che fu presente alla disgrazia, confidò a suo figlio Lucio che i gio-venchi lo buttarono a terra supino e gli strapparono i calzoni, il giubbone e la camicia, ma a lui nemmeno un graffio. Felice cadde in ginocchio e gridò “Misericordia! Misericordia.

Una settimana dopo essersi licenziato dai Pichi, decise di andare a presentarsi al padre Guardiano del locale convento dei Cappuccini. I suoi padroni, “con tutti gli uomini e le donne di casa”, vollero accompagnarlo. Era il 1543, verso la fine di settembre o agli inizi di ottobre, proprio il periodo dell’aratura dei campi, quando la sua opera sarebbe stata più che mai preziosa. Poi, bussò alla porta del convento e venne il padre Guardiano. Quando Felice gli chiese di accoglierlo tra i Cappuccini, lo fece entrare in chiesa, gli mostrò il Crocifisso e gli disse: “Vedi, giovane, quanto ha patito Cristo per noi!”. Ed allora Felice s’inginocchiò e scoppiò in un pianto dirotto. Il padre Guardiano capì e discretamente si allontanò. Cosa sia successo in quelle ore tra il Crocifisso e Felice, è un segreto che nessuno ha il diritto di scrutare. Ce lo insegna anche il gesto delicatissimo del padre Guardiano, al quale venne in mente che anche all’inizio della vita nuova del giovane Francesco d’Assisi ci fu un Crocifisso, quello di San Damiano. Quando il padre Guardiano tornò, lo accolse tra le sue braccia, ringraziando insieme il Signore. Quel frate conosceva molto bene, come tutti, chi era quel giovane non ancora trentenne dipendente dei Pichi. Secondo le norme dei Cappuccini, il padre Guardiano lo trattenne in convento “per alquanti giorni” nei quali sperimentò cosa significava vivere da frate Cappuccino. Poi lo vestì con il saio e gli consegnò una lettera di presentazione per i superiori di Roma, ai quali era riservato accettare le richieste di chiunque avesse voluto entrare nell’Ordine.

 

Durante la sua vita trascorsa a Roma di rado torno a Cantalice ed era solito dire che era più utile pregare per i parenti e i paesani anziché andare a vistarli: “prega Dio per loro, diceva, che gli farai più utile“.

Nell’inverno 1580, dopo molti anni di vita religiosa trascorsa a Roma, ritornò a Cittaducale per recare di persona la lieta notizia che erano stati tolti scomunica e interdetto inflitti alla città per incresciosi contrasti insorti tra Vescovo e autorità cittadine e a Cantalice per comunicare la bella notizia della speciale indulgenza ottenuta per il suo paese natale da Papa Gregorio XIII. A Cantalice fu ospite della Cognata, moglie del Fratello Carlo nella casa di Colle Canale e qui, mentre lei gli stava preparando la cena Fra Felice le chiese di portargli un po’ di scafi (fave). La cognata gli fece osservare che non era la stagione e che le fave erano ancora in fiore. Ma Felice tanto insistette che lei andò nel campo e tornò con un panno pieno di scafi belli e maturi. Stupore della famiglia, ma nessuno oso gridare al miracolo. Soddisfatto di aver compiuto nella sua terra una benefica azione di pace Fra Felice tornò a Roma.

Il 25 aprile 1988, a conclusione delle celebrazioni per il quarto centenario della morte, Cantalice ha ottenuto per San Felice il riconoscimento ufficiale della Sede Apostolica a Patrono della sua Città natale e a secondo Patrono della Diocesi di Rieti. In tale occasione è stato realizzato il monumento in Bronzo dallo scultore Bernardino Morsani di Rieti, che si può ammirare nel giardino antistante la chiesa della Madonna della Pace.

(Rinaldo Cordovani — San Felice da Cantalice L’uomo del Pane)